Un’improvvisa primavera nella grigia stagione dell’autunno medievale

santa chiara

Santa Chiara ebbe un posto importante nella storia di Igino Giordani. In queste pagine, tratte da un più lungo scritto pubblicato nel volume Le feste, del 1954, ce la dipinge con la poesia dell’anima innamorata di Dio, affascinata da chi Lo ha seguito come unico ideale, raggiungendo i vertici della santità.

Tommaso da Celano, di un anno più giovane di santa Chiara, scrisse la vita di lei per ordine del papa Ales­sandro IV. Nel preambolo egli spiega che quelli erano tem­pi calamitosi: i tempi più brutti di quanti ce ne fossero mai stati, sì che il mondo era pervenuto all’ultima età e il vizio « assorbiva e inghiottiva innumerabile moltitudine di uomini e di donne ». E allora Dio provvide agli uomini inviando loro il patriarca Francesco, e provvide alle donne dando loro «per norma e regola la nobilissima e gloriosa vergine Chiara», quella vergine che il papa stesso aveva posto sugli altari, costretto – come dice il biografo, – dalle innumerevoli virtù e miracoli di lei. Francesco stette quale copia di Gesù; Chiara stette quale copia di Maria. Ma come l’azione di Maria valse anche per gli uomi­ni, e come l’azione di Gesù valse per tutti, poichè in lui «non c’è nè maschio nè femmina», bensì anime tutte eguali avanti al Padre unico, così l’azione di Chiara valse anche per gli uomini, e l’azione di Francesco valse per Chiara e per una serie interminabile di madri e vergini.

Un segreto della riuscita portentosa d’un movimento, che parve un’esplosione improvvisa di primavera nella grigia stagione dell’autunno medievale, va cercato nel legame che unì fra loro, per unirle a Cristo, le anime di Francesco e di Chiara. «Dove due o più si uniscono nel nome mio, ivi son io in mezzo»; e Chiara e Francesco questo fecero: misero in mezzo Gesù.

Esser poveri per esser liberi di amare. O si ama Dio o si ama il Mammona. O si servono i fratelli o si servono i denari. Francesco aveva colto il nucleo del dramma umano, dopo che Cristo aveva piantato la croce tra il vecchio e il nuovo, tra il male e il bene.

Chiara conobbe verosimilmente l’avventura di lui da quel che ne diceva la gente. Quello di Francesco era stato un fatto così nuovo, un mutamento così radicale, una rivoluzione così ardita, che d’ogni dove se ne parlava o per ammirarlo o per deriderlo.

Un giorno, essendo Francesco tornato da Roma, con l’autorizzazione a predicare, Chiara si recò con la mamma Ortolana ad ascoltarlo nella basilica di San Ruffino.

Appena ella vide quel giovine vestito da mendicante, che levava dal volto umile due occhi densi di fuoco e appe­na ne sentì la voce, che veniva dall’unità incendiaria col Cristo in croce, lo riconobbe. Lo riconobbe come si rico­noscono le anime avide di Dio, le quali paiono essersi dal seno del Padre viste in cielo, e poi separatesi tempora­neamente in terra.

Francesco sorgeva davanti agli occhi di lei come in­carnazione dell’ideale che ella aveva accarezzato: la crea­tura che ella aveva attesa: davvero «l’araldo del gran Re», che insegnava la strada, scavata nel masso, per ar­rivare più dritto a Dio.

Rimase estatica, e il suo mondo di perfezione, vaga­mente sognato, prese a definirlesi con sì stupendi contorni che si fece condurre dalla madre ad ascoltarlo altre volte anche nella chiesa di San Giorgio.

«Mai – è stato scritto – si ebbe una comunione di affinità più improvvisa, ardente e assoluta di questa, che metteva a contatto un predicatore vestito come un povero con una bella ragazza dai capelli d’oro, dalle vesti ricche, seduta ad ascoltarlo, in mezzo a un pubblico stupefatto, dal suo posto di patrizia, con una gioia estatica».

Desiderò parlargli: e il desiderio vinse in lei ogni timore. Si può pensare che cosa fosse quel dialogo: Francesco portava Gesù, Chiara portava Gesù; e s’adunavano nel nome di Lui; e dunque in mezzo a loro parlava Gesù. Spariva Francesco nel buio, spariva Chiara nell’umiltà; le loro voci erano lo strumento vocale con cui Gesù si rivelava alle loro anime unendole nella propria anima. Non c’era più una fanciulla, non c’era più un frate. I due erano fatti uno: erano tutt’e due Cristo. «Mio Dio e mio tutto», diceva lui; e quella integralità si impossessava di lei. Francesco non sapeva parlare che del suo amore di Dio, di Cristo, della Vergine: e Chiara non sapeva ascoltare che l’espressione di quell’amore: il poema più bello giunto alle sue orecchie.

Probabilmente egli le insegnò a pregare in poesia come lui pregava.

Francesco recitava a Chiara le lodi della sua sposa Povertà. «Se vuoi divenir perfetto, vendi tutto ciò che pos­siedi e donalo ai poveri al fine di acquistarti un tesoro nei cieli…

«Se uno vuol seguirmi, rinneghi sè stesso, prenda la sua croce e mi segua… ». La regola di Francesco, imitatore di Gesù, si riduceva a queste norme, da cui era richiesta l’emancipazione dal mondo per non appartenere che a Dio.

E Chiara, che coltivava la medesima vocazione, voleva imitarlo sino in fondo. Era la sua una pari volontà di rinunzia. Sapeva anche lei quel che costa separarsi dalla casa, da usi, da beni terreni: ma voleva essere anche lei libera, come gli uccelli dell’aria; come gli Angeli del cielo: lasciare terra e guadagnar Paradiso. Voleva Dio.

In questo più s’incontrarono i due perchè in questo più si somigliavano: creature d’amore uscite dallo stesso ambiente tra feudale e commerciale in cui si poetava e si sognava. Però, spiriti positivi, tutti e due non s’erano contentati di note musicali e di rime melodiose; e cioè di tintinnamenti esteriori, di dilettazioni dell’orecchio e di divagazioni della fantasia. Avevano abbracciato un amore saldo: che non sfioriva: un amore che era l’Eterno Amore. Ambiziosi dell’ambizione dei figli di Dio non si contentava­no di immagini, ma volevano realtà: la realtà del Padre; e perchè nulla di umano ne indebolisse il rapporto, en­trambi erano decisi a domare il corpo e a svellersi da ogni tentacolo del mondo: a piantar l’amore sul dolore, la conquista di Dio sulla rinunzia della terra.

A sentir parlare Francesco, Chiara precisava concreta­mente il mondo eroico dei suoi aneliti di fanciulla; a sentir parlar Chiara, Francesco vedeva il suo ideale, fatto più concreto, più verginale, più Maria. Nell’alto silenzio, su cui vigilava il Subasio, i due persi in Dio, non tanto par­lavano di Paradiso, quanto lo vivevano.

Quando nel 1225, emaciato e quasi cieco, con le stig­mate sanguinanti, Francesco tornò dall’eremo della Verna alla Porziuncola, durante l’inverno, sentendosi morire, desiderò di posare accanto a Chiara. Aveva tanto cam­minato cercando l’uomo per trovare Dio. Ora che Dio era con lui, ricercò Chiara.

Aveva curato e baciato lebbrosi; ora bramò le cure d’una sorella: una sorella che ora a lui, padre spirituale, diveniva mamma. Da lei già aveva ricevuto dei sandali appositi, per camminare, senza soffrir troppo, con quei piedi traforati.

E così andò a vivere in casa di Chiara, a San Damiano, per tutta l’estate del 1225, giacendo nella capannuccia ­fattagli costruire da lei nell’orto; e ivi, tra gli spasimi del corpo e le estasi dello spirito, compose il Cantico de) Sole.

Alla fine dell’estate, dovette recarsi a Rieti per sottoporre gli occhi malati alle cure dei medici di papa Onorio III; ma nel congedarsi affidò a Chiara e alle sue sorelle l’osservanza della povertà assoluta. Essa era minacciata dai potenti, fuori e dentro l’Ordine: solo le mani caste di Chiara potevano proteggerla.

Tornò, più disfatto e sofferente.

Per non esser rapito dai perugini, i quali avrebbero voluto sottrarre ad Assisi la gloria di possedere il corpo di colui che tutti ormai chiamavano «il santo», aveva dovuto fare un lungo tragitto: e giunse ad Assisi semi­morto. Il vescovo lo volle nel suo palazzo, donde invano Chiara bramò d’averlo con sè, per assisterlo nella morte, come verosimilmente anch’egli bramava. Ma doveva es­sere come Gesù, abbandonato in croce dal Padre: morir distaccato da colei che gli faceva da madre. E non potendo muoversi, inviò a Chiara la benedizione.

«Tu dirai a Chiara, – così parlò al frate che doveva recarle il messaggio – che io l’assolvo di qualsiasi man­canza agli ordini del Figlio di Dio o ai miei che ella possa aver commessa, e che deve deporre ogni cura e ogni do­lore; giacch’e se ora è impossibile a noi di vederci, le pro­metto però che, prima della sua morte, essa e le sorelle mi vedranno di nuovo e ne avranno grande consolazione ».

Morto Francesco; fu di fatto Chiara che prese in mano le redini del movimento francescano in quanto esso aveva di spiritualmente grande e originale attorno al fulcro della povertà. E a lei per questa fedeltà guardavano i compagni più fedeli del santo. Forte, tenne testa tanto alle solda­taglie che assalivano la città d’Assisi e il suo convento, quanto alle insidie dei tiepidi che corrodevano l’originalità del francescanesimo.

Per ventotto anni stette malata: le penitenze e i di­giuni le avevano spezzato il corpo. Ma se malata stette nelle membra, sano e intatto conservò l’animo, come Francesco stigmatizzato.

Entrambi, se avevano rinunziato a ricchezze e a pia­ceri, l’avevan fatto per esser liberi di viver la vita totale, che è Dio. In mezzo un tratto prese a parlare: « Va’ – disse – senza paura, poichè hai una buona guida per la tua strada! Va’ senza paura, giacchè Colui che t’ha creata t’ha sempre consa­crata, e ha sempre vegliato su te, e t’ha amata teneramente come una madre ama suo figlio! O Signore, ti ringrazio e ti lodo della grazia che ti sei degnato di farmi facendomi nascere!»

Parlava alla sua anima. « Non vedi, sorella, – chiese poi, – il Re della gloria che ora sono ammessa a con­templare? »

Quindi contemplò, dalla porta che s’aperse, una pro­cessione di vergini, dal cui grembo la più bella, la Donna di luce, Maria, s’appressò a lei morente e la coperse col suo velo. Sotto il velo di Maria, l’anima passò a vivere in casa dello Sposo.

Quel velo, onde Maria la coprì, sta alla persona di Chiara come le stigmate di Cristo alla persona di Fran­cesco. Gesù aveva dato il suo sigillo di dolore a lui, sua copia; e Maria il suo emblema di purezza a lei, sua copia. Egli, morendo con le stigmate, copiò la morte di Cristo; ella, presa tra le vergini, operò un tran­sito, che ricorda quello di Maria.

Esso avvenne il 12 agosto 1253 e – dice il biografo (Tomaso da Celano) – come « fu in terra cittadina d’una medesima città con santo Francesco, così in cielo regna con lui ».

Igino Giordani, Le feste, Società Editrice Internazionale 1954, pp.216-240

 

Pubblicato il: 11/08/2014Categorie: Giordani scrittoretag =

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