La misericordia nel «MAGNIFICAT»

misericordia

Accompagniamo l’apertura del Giubileo della misericordia con un articolo che Giordani scrisse nel 1970 per la rivista «Mater ecclesiae». Attualissimo. Lo pubblichiamo in tre “puntate”.

Nel centro di questo potente inno che è il Magnificat, dove si raccoglie lo slan­cio dei profeti con la profezia della re­denzione, sotto la trasparenza d’una vi­sione verginale, è inserito un accenno alla misericordia divina, il quale pare un’aggiunta retorica, quasi una pausa, che interrompe la successione delle evo­cazioni stupende.

A me è successo, per anni, non solo di non aver dato importanza a quell’ac­cenno, che mi pareva l’effetto d’una usanza stilistica scritturale o anche un’ag­giunta postuma di qualche copista, ma di averlo scordato addirittura. Un giorno, una quindicina di anni fa, recitando l’in­no con padre Lombardi, io saltai quel ver­so: et misericordia eius de progenie in pro­genies, perché addirittura l’avevo dimen­ticato: e sì che da tanto tempo ero solito recitare il Magnificat almeno una volta al giorno. Padre Lombardi mi richiamò e mi fece restituire al testo anche quella di­chiarazione sì umile, detta da Maria, an­cilla Domini, che pesava le parole.

Questo dimostra con quanta superficia­lità ci si può accostare alle Scritture sacre e insieme quante novità se ne pos­sano apprendere, meditandole ogni gior­no di nuovo.

Oggi mi pare che quell’allusione alla misericordia del Padre, nel centro del­l’inno, abbia un valore capitale, e con­tenga la spiegazione di quella concisa esu­berante elencazione di fatti divini, la quale dà all’improvvisazione poetica del­la giovinetta quindicenne, che custodiva e maturava nel seno Gesù, una bellezza inaudita e una immediatezza costante.

Nella prima parte, Maria esalta il « Po­tente che ha fatto grandi cose » alla sua « serva », sì che le generazioni venture, tutte, la dichiareranno beata. Dio ha fatto il miracolo dell’incarnazione del Verbo per il tramite d’una fanciulla povera, umile, d’un oscuro villaggio d’Israele; atto da cui verrà la salvezza all’umanità di tutti i tempi. Quindi ella osserva: «il suo nome è santo – e la sua misericordia (va) di generazione in generazione…».

La redenzione dunque nasce da un atto di pietà del Padre divino verso gli uomi­ni. Se egli ha compiuto quel prodigio d’amore, che solo un Dio poteva com­piere, di far nascere il Figlio in terra da una giovinetta del popolo e di farlo morire su un patibolo per il bene dell’uma­nità, si deve a un atto di misericordia, – di quella pietà condiscendente, straor­dinaria, che si dona agli uomini nelle loro miserie, e che di epoca in epoca li ha compatiti e compatisce e li aiuta e li rimette in via, malgrado le loro apostasie e ingratitudini e delitti; – si deve a un miracolo di quella misericordia, che è l’amore elevato al culmine.

Esso esige che si perdoni al fratello non sino a sette volte, ma sino a settanta volte sette: in pratica sempre, all’infinito; che lo si ami sino a dare la vita per lui.

Maria ha compreso la natura del rapporto di Dio con gli uomini e della sua legge nei rapporti umani, da vergine unita a Dio: e vergine viene da virgo, che viene da vir (vires, forza). Non per nulla il cenno dedicato alla misericordia di lui è preceduto da un epiteto, che mette in risalto la forza di lui, chiamato da Maria il Potente (qui potens est), voltosi, come tale, a riguardare «la bassezza della sua serva».

Questa definizione concorre a spiegare le ulteriori dichiarazioni che la «serva» di Dio fa su Dio stesso.

In altri termini, tutta quella pietà verso i deboli, i malati, gli sconfitti, i doloranti, agli occhi d’un pagano o an­che d’un israelita superficiale, potrebbe parere debolezza, viltà, atteggiamento dol­ciastro o passivo, addirittura morboso.

E invece per Maria, l’amore, e quindi la compassione, l’indulgenza, la carità eroica, la rinunzia per amore del fratel­lo, sono gesti di forza magnanima, di grandezza superiore a ogni misura terre­na. È vile, floscio, sconfitto chi non ha pietà: chi non aiuta il fratello nel bi­sogno, e non piange con lui, e non lo assiste nelle sofferenze, partecipando alle sue prove con amore e donazione. Costui, sì, è uno sconfitto alla stregua della po­tenza divina. Se uno ti dà uno schiaffo, e tu ratto, glielo restituisci, vuol dire che non hai saputo dominarti; non hai avuto la forza di troncare la spirale di azioni e reazioni, di offese e vendette; mentre se ti domini, e non ti vendichi, realizzi un ideale di forza superiore, che reca so­cialmente un beneficio là dove la vendetta inizia una sequela di malefici. (continua)

Igino Giordani

(tratto da “Mater Ecclesiae”, n. 4, 1970)

 

Pubblicato il: 10/12/2015Categorie: Giordani scrittoretag =

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