L’amore come il fuoco oltrepassa le mura: Domenico di Guzman

san domenico lavorata

“Dilatare: uscire dai confini, dalle reclusioni anche se venerande… Gesù era sempre tra il popolo: e gli apostoli e i grandi santi lo stesso”. L’8 agosto la liturgia ci ricorda Domenico di Guzmán, (Caleruega1170 – Bologna6 agosto 1221), fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori e proclamato santo nel 1234. “San Domenico raccolse attorno alla sua crociata anche numerosi laici, ai quali così ridiede la coscienza d’essere Chiesa viva e di avere quindi un compito uma­no-divino immenso da svolgere su questa terra”. Giordani riflettendo, ancora negli anni ’50, sulla figura e sulle opere di questo grande santo, da lui così amato – nel 1928 entrò a far parte del terz’ordine domenicano – ci propone l’immagine di una chiesa ‘in uscita’ – per usare le parole di papa Francesco -, una chiesa viva: “Quando c’è l’amore è come quando c’è il fuoco: prorompe. Vien fuori e investe, oltrepassandole, mura e recinzioni”. Lasciamoci allora interpellare anche oggi dalla vita di Domenico, che Giordani ci propone.

San Domenico prese i monaci e li tolse dalle celle, li sciolse dalle più rigorose clausure per metterli a circo­lare fuori dei chiostri nel mondo. Erano legati al luogo, e 1i fece pellegrini. Non attentò così al monachesimo; ma vi aggiunse un’attività nuova. Lo sviluppò per nuovi compiti. 

Così fece san Francesco. Così tutti i fondatori di or­dini mendicanti: e questi, uscendo dalle loro case petrigne, come fonti giovani da rocce tra il verde, scesero per le valli arate e si mescolarono tra la folla, la quale, messa in moto dalla nuova economia, staccatasi anch’essa dalle antiche dimore, rischiava di lasciar dietro Cristo. La gente camminava: e gli apostoli si misero a camminare con essa. Essa si concentrava pei commerci, le scuole, gli agi, le industrie, nelle città, e i nuovi monaci la seguirono da valli e monti nelle città. Anche il monachesimo insomma si svincolò dal feudalismo e iniziò la nuova esistenza. […]

Questo fa l’apostolo: viene incontro. Egli è mandato: e va. Non aspetta. Non si chiude in camera; non si in­capsula nella sua santità. La sua santità la proietta a bene­ficio di tutti; essa è salute ed egli la riparte tra chi ha bisogno; egli si santifica nella santificazione dei fratelli. Così è operaio cosciente e agente del Corpo mistico, sa­pendo che il miglior modo di generar salute per sè è di generar salute nel corpo sociale della Chiesa: si beve tutti alla stessa fonte, si mangia tutti lo stesso pane, e si è immersi tutti nella stessa atmosfera.

[…] Il Lacordaire, per ristabilire l’Ordine domenicano in Francia, ricercò la linfa del consenso popolare, per tra­sformare di nuovo il popolo in Chiesa; e fuse il rinato Ordine con l’ordine popolare. Quasi lo ripiantò, perchè ricominciasse a germogliare, togliendolo dalla serra vizza, in cui pareva, in Francia, confinato. Suo motto era: dila­tare. Effondersi, cercare il largo, le folle, rientrare nel cuore del popolo. E questo perchè egli capiva che il perico­lo sempre presente, persino ai figli dei grandi e santi e sani ordini religiosi, è di contrarsi e raggrinzirsi, di circoscri­versi nei conventi come in fortilizi, o come in arche, esi­liandosi dalla vita grama e avara e cattiva della povera gente, sfuggendo il contatto dei peccatori e pubblicani – quei malati dello spirito, a cui Cristo, divino medico, più particolarmente si volgeva. Si forma allora piano piano un distacco tra i religiosi e la folla, tra i maestri e i disce­poli, per cui, mentre quelli cantano in coro e insegnano dogmatica, alle prese con eretici d’altri secoli, questi si sbandano dietro altre voci, seguendo pseudo-maestri o dandosi alla macchia. Certe volte, pare di vedere, di là alcuni manieri antichi, tutti porte di ferro e ponti levatoi alzati, con inferriate alle finestre e molossi alle feritoie; e di qua – di qua del fosso dove gracidano le rane, – la folla che va per conto suo, e, se si volta a riguardare ai castelli, è con la curiosità con cui il turista riguarda alle piramidi. Al popolo direttamente poco giova che là dentro scorrano fontane di santità quando non può attingervi. Se i ponti sono interrotti, se le favelle per intendersi sono diverse, a che serve tanta scienza chiusa dentro case inva­licabili? Tanto non ci s’intende più. E così si effettua lo scandalo del distacco del popolo dalla Chiesa, e germinano, nel campo non coltivato più dagli operai di Cristo, quelle eresie sociali (liberalismo, capitalismo, marxismo, atti­vismo pagano, ateismo) le quali, prima di divenir sociali, sono state aberrazioni di princìpi cattolici, deformazioni di verità evangeliche: idee cristiane entrate in decomposi­zione e alteratesi.

Quando ciò avviene, vuol dire che la santità non è santità, che la teologia non è teologia; che si tratta di sur­rugati o di simulacri; perchè in realtà vuol dire che 1’a­more manca. Quando c’è l’amore è come quando c’è il fuoco: prorompe. Vien fuori e investe, oltrepassandole, mura e recinzioni.

Dilatare: uscire dai confini, dalle reclusioni anche se venerande: svincolarsi dagli esclusivismi pii e dagli egoi­smi mal rivestiti di segni sacri. Gesù era sempre tra il popolo: e gli apostoli e i grandi santi lo stesso.

– Andate al popolo! – diceva Leone XIII ai preti, quando, sotto l’irrompere dell’eresia sociale moderna, erano sospinti dal liberalismo in sacrestia.

Quando si fa della vera teologia si fa anche della buona sociologia, nel senso che si studia anche l’aspetto etico e le connessioni divine dei rapporti umani, necessaria­mente teandrici. E se non interviene la teologia agisce l’ateologia: che si potrebbe dire un’attiva demonologia, con cui si opera a inserire il satanico nell’umano, a de­gradare l’uomo a bestia.

Tutti i problemi sociali sono in origine teologici. La società è quello che è la sua teologia. Se la teologia è cristiana, i problemi economici e sociali sono risolti secondo giustizia e carità; se invece i princìpi sono anti­cristiani, sulla società si scatena la nequizia, con l’odio. Si vorrebbe codesta cultura a servizio del popolo, il quale, in quanto popolo battezzato che ha per capo Cristo, non è che la stessa Chiesa. Si dovrebbe lavorare non soltanto per le università, per i cenacoli intellet­tuali, per le minoranze studiose, ma anche per la massa, dando teologia come pane, filosofia come vino.

Non s’uscirebbe così dalla tradizione: se mai più profondamente ci si rientrerebbe. Applicando le dot­trine tomiste ai problemi d’oggi, si sarebbe nella linea di Tommaso, che applicò la teologia ai problemi del suo tempo; e nella linea di Savonarola, del Gaetano e di Lacordaire… Si sarebbe con san Domenico.

Così la scienza diventa servizio. Servizio sociale. E cioè si risolve in amore, e mena frutti di bene uni­versale. […]

San Domenico raccolse attorno alla sua crociata anche numerosi laici, ai quali così ridiede la coscienza d’essere Chiesa viva e di avere quindi un compito uma­no-divino immenso da svolgere su questa terra.

Igino Giordani, Le feste, Società Editrice Internazionale 1954, pp.199-208

 

 

Pubblicato il: 08/08/2014Categorie: Giordani scrittoretag =

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