Giorgio La Pira: un asceta in politica
«5 novembre 1978 – Nei «passi perduti» non si perdevan passi, si marciava verso la luce. Giorgio La Pira: un mistico in politica. Dal Vangelo traevano, attraverso di lui, forza e fiducia anche gerarchi musulmani e d’altre religioni d’Oriente. Segno che il Vangelo, predicato dalla vita, accomuna tutti…» Così scriveva Giordani nel primo anniversario della morte di La Pira, suo amico, collega in politica, compagno di tante battaglie. Ricordiamo l’anniversario della morte di Giorgio La Pira con l’articolo di Giordani pubblicato sulla rivista Città Nuova del 25 novembre 1977.
Quando la sera del 5 novembre ho appreso dalla Tv la morte di Giorgio La Pira, é stato come se un fratello, dopo una dura fatica, si fosse rifugiato in casa: il Paradiso. Fraterno amico, con lui ebbi più volte a discorrere delle possibilità del cristianesimo nel mondo d’oggi: discorsi politici e cristiani, nei quali s’era d’accordo su un punto capitale: che anche quali deputati al Parlamento dovevamo fare quella che Paolo VI chiama evangelizzazione, convinti che noi, come cristiani, dovessimo annunziare Cristo e inserire le sue verità anche nelle leggi, nelle amministrazioni civili, nei rapporti con uomini ogni istante.
Egli pareva un ingenuo o un bambino nelle sue visioni del mondo; ma un bambino con la sapienza teologica (tomista) d’un professore. Povero, che donava lo stipendio ai miseri, viveva coi domenicani di San Marco a Firenze, quasi monaco laico. E a me pareva un monaco nel mondo, un discepolo di santa Caterina, mistico che faceva politica, per portare nel Parlamento, al Consiglio comunale, nelle missioni e nei messaggi a capi di governo musulmani e di varie religioni. d’Oriente, un invito di pace, sì da rifare del mondo un soggiorno dei figli di Dio. Quei capi lo riconobbero come un “profeta”.
Il papa Paolo VI, delle cui lezioni La Pira aveva fatto tesoro sin da quando l’aveva ascoltato nei ranghi della gioventù cattolica, ha riconosciuto limpidamente il carattere di questo laico, a cui, per il tramite del cardinale di Firenze Benelli, ha inviato l’ultimo giorno saluti e benedizione, e lo ha ricordato poi alle folle. Nato in Sicilia nel 1904, giovanissimo era diventato professore di istituzioni di diritto romano, aveva partecipato all’azione cattolica e a quella comunità di scrittori fiorita a Firenze, tra le due guerre: Papini, Giuliotti, Lisi, Bargellini, il “Frontespizio”… Anche lui osteggiò il fascismo; ma, come in tutte le sue opposizioni agli errori, non coltivò odii, non proferì mai parole offensive alle persone: guardò sempre uomini ed eventi dal lume della carità, convinto che compito del cristiano fosse di costruire il Regno di Dio e non il disordine diabolico.
Con questa coscienza, fece il deputato sin dalla Costituente, e fu sottosegretario ai Lavori pubblici nel 1950. Fu sindaco di Firenze; e sempre si dedicò alla pacificazione dei popoli, per cui si recò in Vietnam e in altre zone. Ho una sua lettera del gennaio 1974, al suo ritorno da Dakar, in cui, tra l’altro, mi scriveva: « Sì, caro Giordani, sia tutta la vita terrena “noviziato” per quella celeste! Unire, pacificare, affratellare i popoli, nel Signore Gesù: altro scopo non ha la vita politica nel mondo. La Madonna benedice e unisce. Con fraterno affetto. Prega per me ». L’unità – testamento di Gesù – fu l’ideale per il quale lavorò con una sapienza ammirata in tanti paesi e in mezzo a tante comunità religiose. Così agendo, raccolse per tutto, non tanto onori per sé, che non lo interessavano, ma comprensione della morale cristiana, rivelata come motrice di convivenza nella giustizia sociale, nella fraternità, nel servizio. In un’altra lettera, scrittami come sindaco, mi illustrava il “messaggio inviato ai capi di governo relativamente al VI Convegno per la pace e la civiltà cristiana”: «Voglia Iddio – diceva – benedire questa nuova speranza di pace che Firenze desidera seminare ancora una volta su tutto lo spazio delle nazioni. Avrai la bontà, caro Giordani, di associarti a noi in questa speranza ed in questa preghiera…».
Esile fisicamente, come umile spiritualmente, negli ultimi mesi, forse per 1a malattia, era chiuso nel silenzio. Un silenzio di forte sopportazione del dolore e d’intima preghiera. Poteva cessare lo statista, restava il mistico, che in Dio vedeva la bellezza della vita e interveniva, con umiltà e forza, a ripararne le fratture. Per lui la vita, dono di Dio era bella: la guerra che è morte, era oltraggio contro il Creatore e contro le creature e il loro lavoro.
Giorgio La Pira, come amico, è stato per anni con me, come con tutte le persone da lui avvicinate, un interlocutore di cose pure. Ho ritrovato tra le mie carte alcune lettere scrittemi da luiu, a cominciare da una dell’epoca fascista, spedita dal convento di S. marco, per invitarmi a tenere una conferenza sul Papa. Il papa visto come vertice della Chiesa, che nel pontefice risulta unificata. E, sotto questo riguardo, egli curò sempre la costituzione di nuovi rapporti tra cristiani e non cristiani, dagli ebrei agli anglicani, dai maomettani ai buddisti, partecipando all’azione ecumenica. «Il Signore – mi scrisse nel ’71 – vuole davvero regnare sulla terra: unità, pace, grazia!». Nel gennaio del 1959 m’inviò copia d’una lettera da lui spedita a capi delle chiese ortodosse e protestanti, chiedendomi altri indirizzi. «Il grande messaggio natalizio di S.S. Giovanni XXIII pone sotto una luce soprannaturale così folgorante e in un risalto così notevole questo “divino problema” dell’ unità della chiesa ».
Il messaggio, un condensato della teologia e delle istanze di riconciliazione proprie dell’ecumenismo genuina, fu indirizzato ad Atenagora, ai Sinodi della chiesa serbo-ortodossa di Belgrado e di Sofia, al patriarca d’Atene e ai maggiori gerarchi greci, russi, copti, oltre che alle supreme autorità religiose delle comunità anglicane e luterane (ricordo Billy Graham, il teologo Cullmann, il capo della chiesa calvinista di Ginevra…).
Fu il figlio della chiesa. Senza gesticolazioni ampollose, nella sua semplicità e onestà, divenne un apostolo intelligente, senza davvero darsene arie o credersi tale. Lo faceva come dovere, come esigenza della sua natura d’uomo e di cristiano. Dove si vide che la santità è semplice e facile per tutti, una volta donatisi alla volontà del Signore. La sua attività mai fu, per suo volere, strombazzata dalla stampa. Era per lui spirito spontaneo, perché cristiano, un dovere il donare il divino agli uomini che avvicinava, non tanto facendo discorsi catechetici, quanto spontaneamente interpretando gli eventi con gli occhi del credente in Dio, dall’uomo unito a Dio, e quindi presentandone nella loro verità gli aspetti buoni e quelli non buoni. Il linguaggio era sereno. Anche scherzando, anche conversando nel corridoio dei passi perduti, a Montecitorio, dove non perdeva i suoi.., passi, perché il suo parlare, pur nella maniera in apparenza estranea alla catechesi, come la sua politica, fruttava apostolato.
Giorgio La Pira resta una dimostrazione dell’attualità perenne della religione e della ineluttabile necessità di essa, se non si vuole che la vita muoia. E per la difesa che egli fece della vita, come bontà, solidarietà, servizio, il lutto è stato sentito in tante parti del mondo, da creature numerose nutrite di pane di farina e pane eucaristico dall’apostolato laicale di lui. La sua morte perciò se ci addolora, ci dà pure gioia, perché lo sappiamo giunto dove voleva arrivare: alla Vita, Dio; e perché ereditiamo da lui una lezione di come si può custodire un’anima serena e forte e piena di gioia, pur tra le fatiche e le sofferenze; lezione della libertà di Cristo, quindi la libertà dal male, e quindi il distacco da ambizioni ed egoismi. Mente acuta, anima spalancata che portava il Redentore dentro di sé, lascia doni di saggezza a tutti.