Santa Caterina da Siena
Alcuni pensieri su questa grande Santa, patrona d’Italia e d’Europa, molto amata da Igino Giordani.
Uno dei geni della sapienza religiosa fu l’analfabeta Caterina da Siena, il cui caso dimostra che l’amore, e quindi la luce, è dato a tutti, qualunque sia il grado della mente. L’esempio di Caterina apre il valico alla comprensione del mistero di Maria di Nazaret. Se uno vuoi conoscer Dio per amarlo, già perché lo ama lo conosce. Il bimbo conosce il padre dall’amore, dalla vita, anche se non si rende conto dei compiti svolti dal padre, della sua posizione nel mondo, della sua natura umana. «Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1 Gv. 4, 7-8).
Caterina da Siena condensò l’opera e la parola di Gesù nel binomio: Fuoco e sangue. Egli — come dice l’Apocalisse (1, 5) — è «colui che ci ama e ci ha prosciolti dai peccati nostri nel suo sangue ». Il fuoco dell’amore suscitò la redenzione: «Fuoco son venuto a portare sulla terra e solo desidero che arda» (Le. 12, 49).
Una comunità cristiana, un’anima, congelata nelle sole norme, pur belle, nelle sole pratiche personali, pur sante, se non spande fuoco di carità è come un tizzone spento. «Infatti il Dio nostro è fuoco divoratore…» (Ebr. 12, 29). Dalla sola data del Golgota ad oggi la rivoluzione bruciante dell’amore ha divorato errori, pregiudizi, crimini: ha distrutto anticaglie putride, anime disfatte, istituti asfisianti; ha bruciato il cadavere della Morte.
La santità portata anche per istrada, anche in casa, poiché essa è diritto e dovere di ogni nato di donna. Questa verità aveva inculcata Caterina da Siena ai suoi, dai gonfalonieri alle massaie. E l’età nostra, dopo il Concilio sopra tutto, propugna la coscienza di questa universalità, per cui la Chiesa intende sostituire alla frustrazione la felicità della convivenza.
Caterina condensava la vitalità della redenzione nel binomio: fuoco e sangue. Come fuoco, distrugge; come sangue vivifica. E’ quel che rilevano i mistici: il fuoco consuma chi ama, perché si dona, sino a perdere ogni cosa, resistenza stessa; il sangue passa nell’organismo sociale e lo vivifica: sangue di Cristo (e dei cristiani) che alimenta il corpo mistico.
Igino Giordani, L’unico amore, Città Nuova, Roma
Se amano rettamente, i cuori si stabiliscono nella gioia.
«La carità – dice santa Caterina – non cerca le cose sue; cioè, non cerca sé per sé, né Dio per sé; ma sé e il prossimo per Dio, e Dio per lui medesimo».
Questo vuol dire che l’anima cristiana non ama per sé, per proprio beneficio e godimento. Per sé non dovrebbe amare, non dico i fratelli, ma neanche Dio. Ella deve amare Dio e i fratelli, per amore di lui. Allora l’amore centrato nell’Eterno non subisce né sbalzi né delusioni: acquista la serenità e l’impavidità, nella pace, di Dio stesso. La carità, – prosegue Caterina da Siena, – «non cerca sé, perché non elegge luogo né tempo a modo suo, ma secondo che gli è conceduto dalla divina Bontà. E però ogni luogo gli è luogo e ogni tempo gli è tempo. Tanto gli pesa la tribolazione quanto la consolazione, perché ella cerca l’onore di Dio nella salute delle anime…».
Uccidendo, non il corpo, ma «la propria volontà spirituale e temporale» o, come dice pure la santa, consumando nella carità l’amor proprio, l’anima si colloca in Dio: si deifica; e, paga di farsi volontà di lui, non cerca neppure una condizione di vita più perfetta, più religiosa più ascetica, in altri luoghi, in altro stato; ma dove sta, sta bene, se a Dio così piace. «Allontana da me questo calice…: però si faccia non la mia, ma la tua volontà».
Santa Caterina trova che si sta nella carità perfetta, – in questo amor puro, – se si osservano due condizioni: una, di pazienza verso le ingiurie piccole e grandi; l’altra, di servizio dei fratelli.
Se queste due condizioni non risultano osservate, vuol dire che l’anima ama sé; e allora «è piena d’ira, non è paziente, germina odio verso Dio e verso il prossimo». E non ha pace, abbandonata com’è al vortice della mutabilità umana.
Santa Caterina insegna che per ricambiare l’amore a Dio, il quale non ne abbisogna, noi abbiamo un mezzo: il fratello.
Posto il circuito: Dio – lo – Fratello, per carità l’Io si fa mediatore tra il fratello e Dio: fa da valvola e accende Cristo, fa da ponte e ricongiunge i due estremi, così prolungando, applicandola, la redenzione dell’unico mediatore, Cristo. Per tale modo compie il suo compito nel Corpo mistico.
A sua volta, il fratello ci sta per ricongiungere me a Dio; anche egli, come ogni redento, per l’amore, che è la vita di Dio in lui, fa da mediatore: prolunga la redenzione.
Igino Giordani, Il Fratello, città Nuova, Roma, 2010