La saggezza infinita del professore ingenuo

sorride

Igino Giordani, scrittore, politico, padre esemplare

di Tito Stagno

Si legge d’un fiato questo profilo di Igino Giordani: vivace, originale e nello stesso tempo appassionato e affettuoso, tratteggiato da Tito Stagno nel gennaio del 1995, amico e collega del figlio Brando, giornalista della RAI molto noto, telecronista e poi conduttore del TG negli anni Sessanta. Fu proprio lui, Tito Stagno, che il 20 luglio 1969 dette lo storico annuncio “Ha toccato il suolo lunare!” in occasione del primo sbarco sulla luna. Con poche sapienti pennellate ci fa entrare non solo nel personaggio Giordani, ma anche nella sua famiglia e, delicatamente, nei rapporti del padre con i figli, del marito innamorato con la moglie “deliziosa, tutta gioia, esplosiva di vitalità”.

«La forza del matrimonio deriva dall’amore e l’augurio nuziale più positivo per esso sta nel preco­nizzare agli sposi l’amore»: parole di Igino Giordani, il maggiore scrittore cattolico del nostro tempo, che mi so­no tornate alla mente nel giorno del centenario della nascita, nei mesi scorsi, una specie di testamento spiri­tuale – così lo definisce Tommaso Sorgi – lasciato alla famiglia moderna da uno che aveva scoperto e vissuto la novità dirompente e santi­ficante del matrimonio. La me­moria si immerge in tre e quattro decenni fa, comin­ciando a ripescarmi immagi­ni di quell’anziano signore dall’aspetto serafico che mi capitava d’incontrare di tan­to in tanto nella casa dei Giordani, a Monte Mario, quando Brando e io erava­mo, a Roma, giovani pionieri del primo telegiornale della Rai.

foto068Possibile – mi chiedevo ogni volta – che quest’uomo mite e pacifico, proprio lui che ha presentato alla Camera la prima proposta di legge­ sull’obiezione di coscienza sia stato in trincea nella pri­ma guerra mondiale? Possi­bile che durante la dittatura fascista la polizia lo sorve­gliasse costantemente, consi­derandolo elemento tra i più pericolosi?

Sì, Igino Giordani, il papà di Brando, in trincea c’era stato giovanissimo: a Osla­via, sul Piave, nell’altopiano di Asiago; ed era anche stato ferito gravemente a una gam­ba sul monte Zebio, guada­gnandosi in quell’azione la medaglia d’argento. Sì, il re­gime fascista non smise mai di perseguitare questo demo­cratico puro, questo cristia­no autentico: dapprima lo co­strinse ad abbandonare l’in­segnamento al Liceo perché egli voleva restare fedele alla sua idea, accettando la batta­glia politica a fianco di Don Sturzo; poi, negli anni più tri­sti, lo obbligò di fatto a riti­rarsi a lavorare nella Biblio­teca Vaticana.

Della sua esperienza alla «Vaticana» sentii parlare da Igino Giordani una sola vol­ta. Era il giorno di Pasquetta, credo del ’57, e a Roma faceva caldo come d’estate. Insieme con il professore, protetto da un cappello di paglia, c’erano la moglie Mya e due dei quattro figli, Sergio e Brando. A tavola, in un risto­rante panoramico all’aperto, alla Camilluccia, affacciato sul Tevere all’altezza della Farnesina, il professore si li­mitò a sottolineare i vantaggi del suo viaggio del 1927 negli Stati Uniti, dove apprese la biblioteconomia, la scienza delle biblioteche, che gli con­sentì di applicare la tecnica più moderna alla biblioteca più antica. Sul suo ruolo in quell’im­portante lavoro di riforma neanche una parola. Da una scritto di Guido Gonella, ho appreso più tardi che senza l’intelligenza e l’intrapren­denza di Igino Giordani il nuovo catalogo della «Vatica­na», un modello in materia, che faceva ritrovare in pochi minuti qualunque libro, an­che quelli delle collezioni an­tiche, certamente non sareb­be stato realizzato.

Un’altra immagine: il pri­mo piano di quel sorriso ap­pena accennato, angelico e nello stesso tempo bonaria­mente ironico, che illumina­va il volto del professore quando gli parlavamo, Bran­do e io, dei nostri piccoli pro­blemi di lavoro in quella Rai fine anni Cinquanta bacchet­tona, esigente, taccagna e an­cora orgogliosa. A ripensar­ci, sembrava che intuisse già che ben altre tegole sarebbe­ro cadute sulla televisione pubblica: le preoccupazioni di quei due ragazzi appena diventati giornalisti profes­sionisti, il figlio e l’amico, an­che se avevano qualche giu­stificazione, non potevano che fare tenerezza a quell’uo­mo dagli occhi buoni che sembrava guardassero lonta­no, e forse sapevano vedere lontano.

Adesso, più che un’imma­gine, un’impressione ben conservata negli anni, forse solo personale ed errata. Non ne ho mai parlato con Bran­do, né con alcuno dei suoi tre fratelli: l’impressione che quando si tiravano in ballo questioni e personaggi attua­li della politica, lui, il profes­sore Igino, che dopo la Libe­razione era stato deputato al­la Costituente e al Parlamen­to, si isolasse dalla conversa­zione, non infastidito, ma di­sinteressato, serenamente distaccato. Conoscendo l’uo­mo, escludo che ciò avvenis­se perché i ricordi più recenti della sua attività in seno alla Dc erano amari: le durissime polemiche, l’allontanamento dalla direzione del «Popolo», alla quale l’aveva voluto De Gasperi, le ripetute sconfes­sioni del partito, la bocciatu­ra alle elezioni del ’53. E allo­ra? La risposta credo di aver­la trovata a pagina 143 del­l’autobiografia, Memorie di un cristiano ingenuo, pubbli­cata nel 1981, un anno dopo la morte di Igino Giordani nella Mariapoli focolarina di Roc­ca di Papa. È una specie di poesia, come egli stesso la chiama, che mi sembra esprima bene l’animo del grande scrittore cattolico nel tempo in cui l’ho conosciuto e in­contrato: «Quel che accade non m’importa più: / ora vo­glio sparire nel cuore abban­donato di Gesù. / Tutto questo penare, / per l’avarizia e per ­la vanità, / nell’amore scom­pare: / ho riacquistato la mia libertà». Nel tempo in cui l’ho conosciuto e incontrato, l’uo­mo era fuori della politica, ormai immerso completa­mente nella fede.

Un altro ricordo sopraggiunge dal principio dei lontani anni Sessanta… Mi è appena nata una figlia, la seconda, e ho deciso di chiamarla Caterina: il Papa, Giovanni XXIII, ha inaugura­to da poco un monumento al­la Santa di Siena in Via della Conciliazione, a pochi passi da San Pietro, e io, telecroni­sta della cerimonia trasmes­sa in diretta, ho dovuto impa­rare molte cose sulla vita e sulle opere della patrona d’Italia, restandone affasci­nato. Di qui la decisione di battezzare la piccola con il nome della suora che «per prima uscì nel mondo, conci­liando fuori del chiostro la contemplazione e l’azione, per amore dei fratelli e per la li­bertà della Chiesa». Queste parole le ha scritte Igino Giordani; a me allora, quan­do gli manifestai il proposito sulla figlia appena arrivata, il professore mormorò due volte la parola «bravo». Solo più tardi, leggendo le sue opere, nelle quali l’analfabe­ta Caterina da Siena è defini­ta di volta in volta «nostra madre, mia maestra, genio della sapienza religiosa, grande apostolo, donna assai vicina alla generazione d’og­gi, col fascino della purezza e della sofferenza», ho capito il piacere intimo che si celava dietro quel «bravo, bravo».

Nelle ultime istantanee ri­pescate dalla memoria c’è Igino marito e pa­dre dolcissimo: quei buffetti rapidi e leggeri – ho avuto la fortuna di riceverne uno – a Ildebrando («Brando, per ra­gioni di spazio»); le occhiate divertite a Sergio, nel quale, secondo me, continuava a ve­dere lo scatenato Sergiolino della «Repubblica dei mar­mocchi», diario gustoso delle imprese dei piccoli Giordani; gli sguardi alla moglie, Mya Ora Finiamola Salvati. («Il nome, piuttosto bizzarro, le era stato apposto da suo pa­dre, un avvocato, proprieta­rio di terre, che aveva valuto così mettere un limite alla se­quela dei figli. Ma il nome non era valso: ché a Mya era­no seguiti altri due bambini, in tutto una dozzina»). Erano sguardi pieni d’amore, e an­che di uno stupore quasi in­fantile, perché questa moglie «deliziosa, tutta gioia, inna­morata della musica, esplosi­va di vitalità, dalla voce di so­prano leggero bellissima», lo incantava.

Davvero esplosiva di vita­lità la signora Mya Giordani. Quando mi capitava di incon­trarla – il che avveniva per­lopiù nei negozi del nostro quartiere – io, professioni­sta della notizia e della paro­la, venivo regolarmente tra­volto da quel torrente in pie­na. Ma come faceva il profes­sore a porre un argine a simi­le esuberanza, a tanta irre­frenabile energia? Con l’amore, solo con l’amore.

Nessuno – confessa Mya al marito prima di morire – in modo pari al suo l’aveva mai amata. Quando lei non c’è più, il professore si trasferi­sce tra i focolarini «a comple­tare la vocazione e la missio­ne di rilancio del matrimo­nio».

Già, il matrimonio: «Il ma­schio lasciato solo sul pianeta sarebbe stato una carenza co­smica, un fallimento».

(da L’ECO DI BERGAMO, 2.1.1995)

Pubblicato il: 19/09/2014Categorie: Dicono di Lui

Condividi questa storia, scegli tu dove!