Marta, Marta…
«Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno» (Lc 10, 41-42).
A rovesciare la tirannide del lavoro manuale, e a ridurre questo in giusti limiti, mira anche la valutazione data da Gesù dell’attività contemplativa, religiosa. Nell’ospitale casa di Betania, c’erano due sorelle che si davano da fare per preparargli un’accoglienza affettuosa e degna; sennonché mentre Marta, che era forse la maggiore e certo fungeva da massaia principale, accudiva alle molte faccende necessarie a una donna per allestire una cena fuor dell’ordinario, Maria, seduta ai piedi di lui, l’ascoltava.
Marta era buona certo; ma, come la gran massa, vedeva le cose più sotto l’aspetto, come si dice, pratico: di fare, darsi da fare; una di quelle donne indaffarate che non hanno mai un minuto di tempo per ricrearsi; sempre con la febbre addosso, vera espressione di quel lavoro che finisce col diventare fine a se stesso.
Sì che, a un dato momento, le scappò la pazienza e chiese al Maestro: «Signore, non t’importa che mia sorella mi lasci sola a servire? Dille, dunque, di aiutarmi». Gesù era così buono, così ragionevole che certo avrebbe accolto la richiesta di lei. Ma la ragionevolezza di Gesù non è del genere di quella del mondo: la sua proviene dalla ragione essenziale delle cose; rispose quindi: «Marta, Marta, tu t’affanni e t’inquieti di troppe cose. Eppure una sola cosa è necessaria. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10, 38-42).
La parte migliore è attendere alla salvezza dell’anima, ascoltare Gesù: il resto, comprese le faccende domestiche, con tutta l’attività lavorativa esteriore, è subordinato strumentalmente a questa unica necessità. Prima l’una, e poi l’altra: quella fine, questa mezzo: quella di Dio, questa dell’uomo.
Igino Giordani, Il messaggio sociale del cristianesimo, IX ed. Città Nuova 2001, p. 277.
…cielo e terra, anima e corpo, pane spirituale e pane di frumento, povertà e ricchezza, Maria e Marta… Gesù non ha mai condannato il secondo termine in sé: ha condannato i suoi abusi, consistenti nel predominio che esso assume, può assumere, sul primo termine, il quale è essenziale. Egli ha – l’abbiamo detto più volte – ristabilito l’ordinamento gerarchico delle attività; ha detto che non bisogna assorbirsi nell’inquietudine dell’avvenire, ma rimettersi anche alle cure del Padre che è nei cieli, e considerare come grado eroico di virtù la povertà, intesa quale emancipazione dal culto e dal desiderio del denaro, allo scopo sempre di ricordare che l’anima sta davanti (non contro) il corpo, e il cielo sovrasta (non contrasta) alla terra.
Igino Giordani, Il messaggio sociale del cristianesimo, IX ed. Città Nuova 2001, pp. 266-267.