Igino Giordani, Maria Gabriella della Trappa e la settimana per l’unità dei cristiani (seconda parte)
La trappa
Ora il primo frutto dell’Ottava è stata, per me, proprio questa precisazione dell’essenzialità del problema ecumenico, quale era stata posta, in unione con la Chiesa, dall’ignota Trappa. Il secondo frutto è stata la conoscenza della Trappa stessa.
A metà dell’Ottava ci siamo recati a Grottaferrata, padre Domenico Mondrone S. J. e io, incontrando la giornata più acre per noi e più acconcia per contemplare un monastero cistercense nella sua essenzialità. Un cielo di piombo che si disfaceva in pioggia e loto sulla terra fradicia; un’assenza totale di colori e prospettive sulla campagna pezzata di neve.
Da un usciolo campestre siamo entrati in un vialetto, che rasenta una sorta di casa colonica; e da presso una finestra bassa, chiusa da una griglia, siamo stati salutati da una voce femminile che ci ha detto: – Sia lodato Gesù Cristo. – Sempre sia lodato.
Siamo nella casa del Signore, dunque; sotto la grondaia del tetto di Gesù.
Fa freddo e la pioggia percuote in faccia e infradicia i piedi; ma quel saluto, di colpo, ci distacca dal grigiore.
Tra la grata intravediamo una tonaca bigia, tagliata da uno scapolare bruno: l’asta verticale di una croce su una creatura crocifissa con Cristo… Io comincio a svagare, con la mente; ma la stessa voce ci invita a prendere una chiave per aprire, a pochi passi, il parlatorio.
Il parlatorio è una breve stanza, dalle pareti nude, sbiancate di calcina al pari del soffitto, tenuto da travicelli sbilenchi; c’è a destra una povera immagine di Maria, che riscalda un po’ l’ambiente, e nereggia, di rimpetto all’uscio, una grata, a sbarre fitte.
Quel che più m’impressiona è il silenzio. Un silenzio pesante e vasto, come di casa abbandonata; ma in quel luogo diviene, vorrei dire, animato, perché prende lo spirito e lo risucchia verso epoche perdute, quando queste colline erano coperte di boschi e chiazzate di paludi, e sui poggi le croci vigilavano il lavoro di monaci solitari, e il tempo girava così lento da parere immobile. Il crepitio della pioggia contro i vetri della finestrella ritma quell’ immobilità, e sveglia pensieri insoliti, d’una vita che, pur essendo nel tempo, s’è già fissata nell’eternità…
A buon punto la mia fantasticheria è interrotta dall’ingresso d’un monaco; un trappista, dagli occhi vivacissimi, sotto la ghirlanda argentea dei capelli, il quale ci fa un’accoglienza fraterna, tal che mi par d’esserci voluti bene da sempre. E faccio una prima osservazione che poi dovrò ripetere e confermare; e cioè che questi monaci sono la gente meno fantastica e meno facile alle illusioni e ai vaneggiamenti che si possa immaginare; mentre io che vengo dal così detto mondo, e cioè dalla ressa dei veicoli, dalla gazzarra e dall’incrocio, spesso stizzoso, di masse mutevoli di persone, al primo appressarmi a questi luoghi della contemplazione mi perdo nel fantastico.
Mentre conversiamo, di là dalla doppia grata, s’aprono, come due ali silenziose, due sportelli e dall’ombra emergono due figure bianche, che s’inchinano. Le prime trappiste che io abbia mai vedute.
Padre Mondrone è un direttore di coscienze e conosce l’argomento della scissione religiosa: egli quindi avvia il discorso e lo dirige.
Io non ricordo più nulla; e taccio, ascoltando, di lontano, il loro colloquio, e smarrendomi via via, di nuovo, in una sorta d’incantesimo. – O di meditazione?
Quelle voci fioriscono da un silenzio, che il freddo e la povertà fanno essenziale. Non un segno c’è che distragga lo spirito: ci son solo quelle anime, dietro la doppia barriera, che le separa non tanto dalle persone, quanto da tutto il mondo, che, come un’orgia, fuori di qui, ci avviluppa. Ma sono, esse, e siamo, noi, nel Corpo mistico, con un debito di corresponsabilità, per cui quel che esse fanno interessa vitalmente anche noi e quel che noi facciamo è anche da loro patito e goduto, indivisibilmente.
L’unità della Chiesa è la vita stessa nella Chiesa.
Mentre appunto si parla dell’unità della Chiesa, e di madre dell’Immacolata, la trappista immolatasi, a cui viene aggiunto il nome di suor Maria Gabriella, a me le idee tornano, come sciami sbandati, da peregrinazioni disordinate, e si raccolgono, si fermano, sì che quel che sapevo della vita contemplativa, assume un contorno meno impreciso.
Capisco meglio il perché della nudità della natura fuori e della povertà dentro: l’una e l’altra aiutano a mantenere la Trappa nella sua essenzialità, separata, quant’è possibile, dalle cose accessorie; sola, assoluta. Povertà, innocenza, unione con Dio, mercè il distacco da tutto; immersione nel silenzio come dentro lo stesso spirito di Dio; perché non ci sia che Dio. «Dio solo»: anelito della mistica. Queste donne – queste sorelle – si son raccolte qui, sepolte nella pressochè universale dimenticanza, per non vivere che alla presenza e della presenza di Dio: – Dio solo.
Se prima d’oggi m’era accaduto di pensare qualche volta, a una Trappa, me l’ero figurata come una sorta di cenobio tibetano, perso; tra solitudini impervie, dentro conche immense di silenzio solcate di quando in quando da nenie liturgiche; e cioè, al pari dei più, io ignoravo la realtà della vita contemplativa, che è di glorificazione e di ringraziamento. E invece costoro non dimenticano nessuno, all’ infuori di sé medesime.
Quanti pregiudizi sul loro conto! Ma no: esse non sono fuggite! Tutt’altro: si son fermate. Han preso stanza in mezzo agli altri uomini, mettendosi di fazione, per levare, quando più nere si fanno le ombre, la luce candida dell’amor di Dio: vergini savie che aspettano, con lampade pronte, lo Sposo, per la festa di tutti.
… Il mio compagno, formato nell’ascesi di sant’Ignazio, si stupisce meno e domina di più la propria commozione; io, quando esco dal parlatorio, sono in una specie d’incantamento dello spirito: mi par d’aver visto il nitido aspetto dell’amor di Gesù. O d’aver fatto un corso concentrato d’esercizi spirituali.
(fine seconda parte – continua)