La politica come amore. Luigi Sturzo e Igino Giordani
Nel gennaio del 1925 — all’avvio, secondo gli storici, della dittatura fascista — Luigi Sturzo si trova da poco in esilio, a Londra. Ciononostante, e benché alla stampa popolare sia stato messo il bavaglio, non rinuncia a esprimere il suo pensiero, libero e forte, dove e quando gli è possibile. Lo fa soprattutto scrivendo ad alcuni amici rimasti in Italia, fra i quali spicca Igino Giordani, giornalista battagliero e scrittore fecondo, uno dei suoi «più cari e intelligenti collaboratori e amici» secondo Gabriele De Rosa. Proprio nel 1925 Giordani dà alle stampe due sue opere fondamentali: il volume pubblicato da Piero Gobetti Rivolta cattolica, che si può considerare un manifesto dell’antifascismo cattolico, e la rivista «Parte Guelfa» da lui fondata insieme a Giulio Cenci.
Quest’ultima intende farsi strumento di studio e di lavoro per coinvolgere i cattolici nell’azione sociale e politica e per cooperare all’«europeizzazione della cultura»: rifiuto di ogni compromesso clerico-fascista e superamento degli egoismi nazionalistici. I due direttori si avvalgono del concetto di interdipendenza tra le nazioni e puntano agli «Stati Uniti d’Europa» con, addirittura, moderatore il Papa: un’idea curiosa e controversa, quest’ultima, spiegata con l’obiettivo della fraternità universale reso più vicino dalla «paternità viva del Pontefice». Guelfo — spiegherà Giordani nelle sue Memorie d’un cristiano ingenuo — «per noi era sinonimo di antifascista, vedendo nei fascisti i ghibellini imperialisti dell’epoca nostra, messisi a raccogliere attorno ai poteri politici anche i diritti ecclesiastici».
La rivista riscuote immediatamente un successo eccezionale. Giordani avverte però i primi segnali dell’intolleranza del regime per la stampa libera e scrive a Sturzo preoccupato: «Preme la tirannide più bestiale, perché esercitata con l’arbitrio più inintelligente. […] Quando si è governati da pazzi». Il fondatore del Partito Popolare Italiano offre allora a «Parte Guelfa» un articolo illuminato in cui spiega cos’è per lui la vera politica (sperando che a causa sua la pubblicazione non venga sequestrata). Prendendo le mosse da un discorso di Mussolini in cui il Capo del Governo legittima l’uso della violenza per fare «il maggior male ai propri nemici», Sturzo evidenzia come si giustifichino in tal modo, in politica, comportamenti contrari all’etica. Ma non deve essere così: etica e politica non possono essere ridotti a termini dicotomici e incompatibili. Al contrario, afferma, «la legge dell’amore» propugnata da 2000 anni di civiltà cristiana può anche essere una «legge politica», altrimenti «la politica, al lume del Cristianesimo, sarebbe un male».
Invece la politica è per sé un bene: il far della politica è, in genere, un atto di amore per la collettività; tante volte può essere anche un dovere del cittadino. Il fare una buona o una cattiva politica, dal punto di vista soggettivo di colui che la fa, dipende dalla rettitudine dell’intenzione, dalla bontà dei fini da raggiungere e dai mezzi onesti che si impiegano all’uopo. Il successo e il vantaggio reale possono anche mancare, ma la sostanza etica della bontà di una tale politica rimane. […] Mai come oggi l’Italia ha sofferto di tanto odio, disseminato a piene mani, insieme alla prepotenza delle fazioni e alla teorizzazione del delitto.
L’articolo — intitolato Ama il prossimo tuo — sollecita l’entrata dello spirito cristiano nell’agire politico, la «proclamazione dell’amore fraterno e cristiano anche nella politica», nella quale occorre lanciare una «crociata dell’amore»: «Si può essere di diverso partito, di diverso sentire, anche sostenere le proprie tesi sul terreno o politico o economico, e pure amarsi cristianamente. Perché l’amore è anzitutto giustizia ed equità, è anche eguaglianza, è anche libertà, è rispetto degli altri diritti, è esercizio del proprio dovere, è tolleranza, è sacrificio. Tutto ciò è la sintesi etica della vita sociale».
Lo stesso Sturzo però, al quale sta a cuore la laicità dell’azione politica popolare, in una lettera a Giordani del 28 giugno 1925 manifesta la sua perplessità sull’idea di puntare agli Stati Uniti d’Europa con moderatore il Papa. L’obiezione riguarda soprattutto la sua connotazione confessionale a fronte della mancanza d’una reale unità spirituale dell’Europa, ma anche la necessità di preservare la libertà della Chiesa, di evitare una sua politicizzazione, di sfuggire «tanto i compromessi con la reazione, quanto le debolezze verso le democrazie». A suo parere essa deve invece mantenersi nell’ambito spirituale e impegnarsi in quanto «spiritualmente ferve oggi nella vita internazionale: pacifismo, disarmo, arbitrato fra i popoli, internazionalismo sano, libertà bene intesa, moralità assoluta».
Senza rivelare il nome dell’autore («un lettore che è una personalità»), Giordani pubblica la lettera nella prima pagina del secondo numero della rivista e risponde, spiegando fra l’altro:
Stati Uniti europei e nazionalismo sono due termini che si escludono reciprocamente. Gli Stati Uniti saranno se saranno le democrazie. […] Il prestigio della Chiesa crescerà con lo sviluppo delle democrazie, a condizione però che i cattolici democratici si sforzino di avvicinarla all’anima delle masse. […] L’unità sarà effetto della ineluttabilità delle condizioni economiche per le quali nessun paese più basta a sé stesso e la vita di ciascuno è intimamente legata a quella degli altri; sarà effetto del bisogno di pace universalmente sentito; si concreterà come una realizzazione del cristianesimo, i cui valori rifioriscono col manifestarsi della loro necessità.
Nel numero successivo Giordani scriverà profeticamente: «L’Europa, o si salva con le sue mani, mettendo in comune le risorse dei singoli, sentendosi una, continentalmente, organicamente, una di economia, di cultura, d’interessi; o fallisce, cadendo».
Numerosi organi di stampa parlano di «Parte Guelfa», chi lodandola con entusiasmo, chi biasimandola. Tra le critiche, si legge: «mi sembra che prendiate la piega di Don Sturzo; male, malissimo!». Papini parla di «giuliottismo a servizio dello sturzismo». Giordani sente l’urgenza di un netto discernimento: «Separiamo l’affarismo, il materialismo (neo-idealistico, filo-cattolico, banco romano, ecc.) dal cristianesimo; la vigliaccheria fisica dall’eroismo evangelico; stronchiamo il dualismo tra il dire e il vivere, tra la vita privata e la vita pubblica, tra la predica e l’azione, riducendo i rapporti alla semplicità originaria del sì-sì, no-no».
Dall’esilio Sturzo scrive un nuovo articolo che, forse per un ritardo nella consegna, non vede la luce. È intitolato Colpo d’aria fredda e dev’essere firmato con uno pseudonimo («Il mio nome non deve circolare per ragioni evidenti. Solo voi tre [Giordani, Fenu e Scelba] dovete saperlo e non dirlo»). L’attenzione è focalizzata polemicamente su alcune scelte accomodanti dei principali esponenti dell’Azione Cattolica che «non hanno levato la loro voce contro certe autorevoli affermazioni sulla moralità della violenza».
«Parte Guelfa» continua a suscitare grande clamore, ma ormai è entrata nel mirino della censura. I fascisti, che inizialmente avevano arricciato il naso, ora si servono delle minacce e dei sequestri. Pare che Benito Mussolini in persona esamini attentamente il terzo numero, sottolineando con matita rossa e blu frasi e parole (tra l’altro, mette un punto interrogativo e un punto esclamativo accanto all’espressione di Giordani «La Chiesa è una madre: non una concubina»), e lo manda al ministro Amedeo Giannini «perché segnali a Padre Tacchi-Venturi questi fiori del giardino neo-guelfo». E per recidere quei “fiori” scomodi, probabilmente, parte l’ordine di sequestro del terzo numero della rivista.
Tra gli intellettuali cattolici e le autorità ecclesiastiche non tutti capiscono o condividono gli intenti di «Parte Guelfa». Francesco Olgiati, molto vicino ad Agostino Gemelli, scrive direttamente a Pio XI per chiedere la sua condanna. Nell’agosto del 1925 interviene «L’Osservatore Romano», che in pochi giorni si occupa della nuova rivista per ben cinque volte e la condanna senza mezzi termini: vuole garantire così l’apoliticità dei cattolici, disapprovare «intemperanze irresponsabili» e rassicurare il regime. È in preparazione il Concordato, infine. A questo punto criticano duramente la pubblicazione anche intellettuali cattolici che inizialmente sembravano apprezzarla, come Domenico Giuliotti (che parla di «pustole letterario-giovanili-popolaresche»; «vecchio liberalismo cattolico tipo francese, con imbecillità democratiche dell’ultima ora»), Giuseppe De Luca («mescolano troppa politica alla cultura»; «tanta democrazia =, per me, politica e non azione cristiana») e Giovanni Papini («Giordani ha ingegno e coraggio ma è troppo legato a una politica, e ad una politica che mi piace ancora meno delle altre. Alla Democrazia bisogna sostituire la Filodemia, che può apparire anche Tirannide»).
Con le sovrapposizioni incrociate di sequestri fascisti e bocciature clericali si stringe la morsa che porta alla chiusura di «Parte Guelfa». C’è il rischio di coinvolgere anche il Partito Popolare, per cui Alcide De Gasperi chiede all’amico Giordani di fare un passo indietro. Data la condanna dell’«Osservatore Romano», la rivista decide di chiudere, dopo soli quattro numeri: «I giovani di fede cattolica dai quali la nostra Rivista è diretta e scritta, accettano questo monito delle autorità ecclesiastiche con animo filiale di netta sottomissione, avendo esposto tutte le loro energie materiali e morali per servire la Chiesa, loro madre, alla quale sono lieti di dare questo nuovo segno — la riprova — del loro attaccamento disinteressato e leale».
Sturzo manifesta a Giordani il suo apprezzamento per la nobiltà d’animo dimostrata: «Approvo quel che hai fatto per “P[arte] g[uelfa]”. Certe contrarietà bisogna accettarle con la perfetta letizia francescana». «La Civiltà Cattolica» però, pur pubblicando il richiamo, manifesta ammirazione per il comportamento dei giovani redattori. Giordani da parte sua ne parla con il direttore dell’«Osservatore Romano», Giuseppe Dalla Torre, e scrive a Sturzo: «mi ha espresso da parte delle superiori autorità il desiderio che la rivista “P[arte] g[uelfa]” sospendesse le pubblicazioni, sino a che almeno dura l’attuale agitazione; poi si vedrà…». E il 15 ottobre 1925 l’organo della Santa Sede commenta la sospensione come un gesto di «obbedienza esemplare».
Troppa politica, troppa democrazia: ecco l’accusa rivolta a «Parte Guelfa» da alcuni intellettuali dell’epoca; finendo così inevitabilmente con l’affermare l’intrinseca immoralità della politica e della democrazia; finendo così con l’avallare — direttamente o indirettamente — la moralità della violenza e del fascismo. Essi sostengono la separazione tra l’etica e la politica, nella quale a questo punto «tutto è lecito». In questa visione criticata da Sturzo — che pare tornare in voga in un periodo di populismi e sovranismi in ascesa — gli “altri”, antagonisti o stranieri, vengono slacciati dal rapporto fraterno che li lega a noi, risultando nemici.
Come non pensare invece alla concezione della politica espressa da Sturzo e da Giordani, diametralmente opposta e convintamente democratica? Proprio perché i cristiani non si lavino pilatescamente le mani è necessario che se le sporchino impegnandosi in prima persona per opporsi agli abusi, per difendere e promuovere la dignità della persona umana, per dare un’anima alla democrazia. Oggi come ieri è necessario un cambio paradigmatico: la politica non è necessariamente sporca, brutta e cattiva. Può, deve anzi, attuarsi come un’alta espressione d’amore, come una vocazione personale che matura e fiorisce proprio a contatto con il bene comune, con lo sguardo rivolto al sociale. Perché il cristianesimo non è solo una visione che riguarda l’aldilà, ma anche un programma di vita per l’aldiquà («come in cielo così in terra») e l’amore per l’uomo non si contrappone all’amore per Dio. Al contrario: lo rende credibile.
di ANDREA PAGANINI
Tratto da “L’Osservatore romano” del 3 febbraio 2019