Questa maledi­zione della guerra

58-2-1-07

Siamo nel centenario della prima guerra mondiale e vogliamo ricordarla attraverso l’esperienza diretta e sofferta di Igino Giordani, chiamato alle armi nel maggio del 1915. “Vedevo l’assurdità, la stupidità, e sopra tutto il peccato della guerra…” scrive Giordani. “Il Vangelo, meditato già abbastanza, m’insegnava, come dovere inseparabile, di far del bene, non di uccidere; di per­donare, non di vendicarmi”. Non possiamo dimenticare questa ‘inutile strage’, come la definì Benedetto XV, soprattutto per imparare dalla storia e impegnarci a lavorare oggi per la pace, combattendo contro le nuove, assurde, inutili stragi del nostro secolo.

Avendo trovato un posto in un Ministero, mi accinsi a menare una vita tranquilla. Difatti, pochi mesi appresso (1915) scoppiò la Prima Guerra mondiale. I nazionalisti, i lettori di D’Annunzio, gl’intossicati della letteratura antiau­striaca ci videro l’occasione per rinnovellare l’impero di Ce­sare Augusto, cogliere allori con rime e sopra tutto trovare un posto in carriere senza fatiche. Ed esplosero comizi guer­rafondai in piazza, ai quali io andavo per protestare contro la guerra; tanto che una volta un personaggio da me stimato, ascoltando le mie grida mi ammonì: – Ma lei vuol farsi am­mazzare!…

Già: io non capivo come si potesse generare alla vita un giovane, farlo consumare negli studi e nei sacrifici, al fine di maturarlo per una operazione, in cui lui avrebbe dovuto uc­cidere gente a lui estranea, sconosciuta, innocente, ed egli a sua volta avrebbe dovuto farsi uccidere da gente alla quale non aveva fatto alcun male. Vedevo l’assurdità, la stupidità, e sopra tutto il peccato della guerra: peccato reso più acuto dai pretesti con cui la guerra si cercava e dalla futilità con cui si decideva.

Il Vangelo, meditato già abbastanza, m’insegnava, come dovere inseparabile, di far del bene, non di uccidere; di per­donare, non di vendicarmi. E l’uso della ragione mi dava quasi la misura dell’assurdità d’una operazione, la quale as­segnava i frutti della vittoria non a chi aveva ragione, ma a chi aveva cannoni; non alla giustizia, ma alla violenza […].

Nel «maggio radioso» 1915, fui chiamato alle armi. […]

Quante trombe, quanti discorsi, quante bandiere! Tutta roba che infittiva dentro il mio spirito la repugnanza per quegli scontri, con governi che, incaricati del bene pubblico, attuavano il loro compito ammazzando figli del popolo, a centinaia di migliaia, e distruggendo e lasciando distruggere i beni della nazione: il bene pubblico. Ma quanto tutto ciò mi apparve cretino! E soffrivo per milioni di creature, alle quali si soleva per forza far credere nella santità di quegli omicidi, santità attestata anche da ecclesiastici che benedice­vano cannoni destinati a offendere Dio nel capolavoro della creazione, a uccidere Dio in effige, a realizzare il fratricidio in persona di fratelli, per di più battezzati.

Quale recluta fui mandato a Modena, dove c’era una specie di università per la formazione di guerrieri e duci. Ve­nendo da Virgilio e Dante, lo studio di certi manuali, dove s’insegnava a ingannare il nemico per giungere ad ammaz­zarlo, mi fece tale effetto che, con una imprudenza non su­perabile, scrissi su uno di essi: – Qui s’impara la scienza dell’imbecillità –. Ben altro concetto avevo io dell’amor di pa­tria. Lo concepivo infatti come amore; e amore vuol dire ser­vizio, ricerca del bene, aumento del benessere, per la produ­zione di una convivenza più felice: per la crescita, e non per lo stroncamento, della vita.

Ma ero giovane, e non capivo i ragionamenti degli anzia­ni, i quali non facevano questione di capire: si stordivano con cortei e strillavano slogan per narcotizzarsi.

Ero divenuto un cristiano tiepido, ma quella pazzia cir­cumurlante mi stava riportando al Vangelo, di cui vedevo l’attualità, per la sapienza superumana ond’era saturo.

Capii la morte per crepacuore di Pio X (e poi di Pio XI, per la ripetizione di quell’orrore); e capii la definizione pre­cisa di Benedetto XV: «una inutile strage». Non mi rassegna­vo alla passività, alla superficialità di tanti, i quali non vole­vano dare la vita per motivi discussi, vaghi, inesistenti e d’altra parte non si muovevano, lasciavano fare, si lasciavano im­molare sull’ara delle chimere tinte di sangue.

Dopo qualche settimana, diplomato a Modena, tornai a casa, per ripartire per il fronte. Abbracciai mia madre e mio padre, i fratelli e le sorelle (l’abbraccio si praticava pochissi­mo in casa mia) e presi il treno. Dal treno scorsi per la pri­ma volta il mare, più largo assai dell’Aniene; e fu come se avessi assolto uno dei doveri della mia esistenza: e, in tre giorni, raggiunsi la trincea dell’Isonzo nel centoundicesimo Reggimento fanteria.

La trincea! In essa, dalla scuola entrai nella vita, tra le braccia della morte con le salve dei cannoni. Fango, freddo, sporcizia, attutirono la scoperta amara: che i soldati erano tutti contrari all’omicidio detto guerra, per il fatto che l’omicidio era uccisione dell’uomo: tutti la detestavano; tanto che mi convinsi d’una verità, che le esperienze future dovevano convalidare: essere nel secolo nostro la guerra un’operazione fatta contro il popolo, in spregio alla libertà di esso e alla così detta democrazia. Se uno statista dichiara la guerra, si può argomentare, a occhi chiusi, che è un nemico del popo­lo: difatti, allestisce al popolo miseria e stragi. […]

58-2-1-05Una trentina d’anni dopo, dal caro on. Cappi, divenuto più tardi presidente della Corte costituzionale, mi fu raccon­tato un giorno alla Camera che egli, in guerra, non aveva mai voluto sparare per tema di uccidere un uomo: un fratello. Anche altre personalità mi confessarono la stessa cosa. La quale era successa anche a me. Se cinque o sei colpi sparai, in aria, lo feci per necessità: mai volli indirizzare la canna del fucile verso le trincee avversarie, per tema di uccidere un fi­glio di Dio. Del resto, da quel che sperimentai, la guerra con­sisteva non nell’uccidere, ma nell’essere uccisi meccanica­mente. Alla fine del 1969, su un rapporto formulato dal Committee on social Issues, degli Stati Uniti, leggo: «Posto di fronte all’imperativo militare: “Uccidi o sarai ucciso!”, il sol­dato si trova spesso in una situazione di conflitto. Durante la Seconda Guerra mondiale e in Corea, gran parte dei soldati rifiutarono di sparare».

Tornando alla trincea, alta sull’Isonzo, e poi sulle mon­tagne d’Asiago, ricordo la pena provata al pensiero dei geni­tori lontani. Ma la morte mia non m’interessava. E perciò non usavo tutte le cautele richieste. Tanto che il capitano – un generoso spirito, avvocato Bedendo – mi richiamava al-l’ordine, dicendomi: – Ma lei non vuol rivedere le cascatelle di Tivoli?!

Stavamo a Oslavia, presso dei ruderi chiamati Pri-Fabrisu: il ricordo dell’agonia (da agone) sofferta in quei luoghi lo raccolsi, più tardi, durante la triennale degenza d’ospedale, in un poemetto intitolato I volti dei morti.

Rammento l’ultimo verso che diceva: «Questa maledi­zione della guerra».

Luminosamente, come dopo un’esplorazione notturna, la religione mi apparve più di prima sorgiva di vita, difesa della vita, con Cristo che è vita; e non capii come cristiani, laici ed ecclesiastici, avessero potuto – contro l’esempio di Francesco d’Assisi – far della religione un coefficiente di po­litiche belliche. Solo più tardi dovevo capire come anche nel­la comprensione del pensiero religioso e nella sua applica­zione alla vita ci fosse un progresso. Oggi, la condanna bibli­ca della guerra pare capita dai più.

Se tutte quelle giornate spese, in fondo alle trincee, a guardare canneti e ciuffi di rovi e nubi annoiate e azzurri splendenti, le avessimo spese a lavorare, si sarebbe prodotta una ricchezza capace di soddisfare tutte le rivendicazioni per cui si faceva la guerra. Certo: ma questo era un ragionamen­to; e la guerra è un antiragionamento.

Con uno sbadiglio maggiore, un giorno ci fu annunziato che dal Piave dovevamo trasferirci all’altipiano di Asiago, dove era in corso un’offensiva. A piedi, in più giorni di mar­cia, raggiungemmo un monte chiamato Zebio, donde fum­mo presto rimossi a una sua propaggine chiamata Mosciag. Lì non c’erano trincee; c’erano rocce e alberi e fratture del suolo. Su quel pendio, solcato da boati, ricordo la preghiera d’un soldato, che mi scongiurava d’aiutarlo a non morire; ché, se moriva lui, i suoi bambini e sua moglie e i vecchi non avrebbero più avuto di che sopravvivere; e poi non voleva morire, perché la morte gli faceva paura e non era per lui, dacché lui era per la vita: per l’umile vita d’un operaio, a cui basta poco, e si contenta anche di meno…

Stanco di parlare e di supplicare, con una voce piagnu­colosa, a un certo momento piantò la fronte sulla roccia: un proiettile gli aveva trapassato il cervello.

Anche a me, sul colle di Oslavia, un giorno una pallotto­la aveva forato l’elmo, da parte a parte, senza turbar la cute. Ne argomentai che la mia cervice fosse a prova di esplosivo…

Sul Mosciag, una mattina, tutti gli ufficiali fummo rac­colti in una baracca, dove venne, col suo seguito, il coman­dante del Corpo d’armata (o Divisione): un nome grosso.

Egli, svolgendo le istruzioni del generale Cadorna, ci disse che bisognava assaltare il nemico e rigettarlo, d’impeto, as­solutamente d’impeto, di là dai confini… L’offensiva, non la difensiva. Ovvero, una controffensiva audace, sicura, imme­diata… Le sue parole meritavano, per l’impulso distruttivo ond’erano cariche, a dir poco, la Marcia reale: ma lassù non si marciava. Si marciva.

Usciti gli ufficiali del Corpo d’armata entrarono con un altro generale vari ufficiali della Divisione (o Corpo d’armata?). Il nuovo gerarca capovolse ragionamento e tattica del collega di prima e raccomandò la difensiva, non l’offensiva…

La cosa si ridusse alla ricerca d’un espediente, piuttosto semplice, per dare ai superiori una dimostrazione della im­possibilità tattica e strategica, logistica e psichica, di sfonda­re i reticolati e gli appostamenti apprestati, su quel fronte, dai nemici: data questa prova, tutto sarebbe rientrato nella normalità. (continua)

Igino Giordani, Memorie di un cristiano ingenuo, Città Nuova 1994, pp.47-53

 

 

Pubblicato il: 07/08/2014Categorie: Giordani scrittoretag =

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