Le opere di misericordia e la Giornata del Rifugiato
«Se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello» (1Gv 4, 20-21).
«…Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato» (Mt 25, 35).
Il testo di Igino Giordani che pubblichiamo di seguito può essere considerato un originale commento a questi passi della Scrittura. Con quell’attenzione, tipica del nostro autore, all’attualizzazione concreta delle parole del Vangelo, alla loro ricaduta sociale, alla loro dimensione esistenziale che interessa il quotidiano di ogni persona.
Del resto, come egli stesso ha confidato più volte, tutta la vita di Igino Giordani può essere letta alla luce e nella fedeltà radicale di quel loghion Jesu: «Vedesti il fratello, vedesti il Signore». Un impegno, quello della fraternità universale, che lo ha visto protagonista lungo tutto l’arco della sua esistenza: dal fronte della Prima Guerra Mondiale, vissuta da pacifista convinto, fino alla sua attività politica e giornalistica in difesa della dignità umana. Per non dire del suo impegno nella Chiesa e nel Movimento dei Focolari in particolare, a diffondere e a vivere l’ideale dell’unità di tutti i popoli nell’unico popolo di Dio Padre.
In occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato (20 giugno 2014), queste parole di Igino Giordani scritte nel 1954 risuonano, perciò, con una particolare attualità e ci richiamano senza mezzi termini ad un impegno concreto, personale e comunitario assieme, a favore della dignità umana.
Si ama Dio, il Padre, anche dando da mangiare al fratello che ha fame.
Tutto lo sviluppo della letteratura su questo tema, – specie della grande letteratura patristica, – è una lotta contro l’egoismo degli uni che provoca la miseria degli altri: quindi una ricostituzione dell’umanità violata e degradata cominciando dal principio: dal nutrire lo stomaco, per ricostituire quel corpo fisico che fa parte anch’esso del Corpo mistico: è anch’esso Cristo vivo. […]
Non tutti possono far miracoli, – scriveva sant’Agostino; – ma tutti possono nutrire i miseri. «Non puoi dire al paralitico: – Levati e cammina! – Ma puoi dire: – In attesa che tu ti possa levare, intanto sta’ e mangia…».
Chi, potendo nutrire i denutriti, i mal nutriti, gli affamati, non li aiuta, è, secondo un pensiero dei Padri della Chiesa, un omicida, anzi un deicida. Fa morire Cristo.
Chi, durante gli anni di guerra, ha condannato dei prigionieri a morir di fame, ha rinnovato, dal punto di vista del Vangelo, la crocifissione. È stato assassino per così dire – di Dio. Le torme di deportati, nella neve e nel solleone, dentro vagoni blindati o in bastimenti isolati, la cui monotonia era interrotta solo dal collasso degli affamati, segnano la linea dell’ateismo pratico, anche se perpetrato in nome di Dio.
S. Vincenzo de Paoli per questo salì nelle galee dei cristianissimi re, dove i galeotti cadevano estenuati.
Ecco così che l’opera di misericordia, ricostituendo la giustizia, si presenta non come mera somministrazione di cibo o di denaro per comprarlo. «Le opere di misericordia non giovano a niente senza l’amore», dice sant’Agostino. «E se anche sbocconcellassi a favore dei poveri tutto quello che ho, e dessi il mio corpo alle fiamme, e non avessi amore, non mi servirebbe niente» (1Cor 13, 3), dice san Paolo a quei cristiani che si comunicano il pane degli angeli e non quello degli uomini. (…) Le imprese di assistenza sociale poco o punto giovano agli effetti della vita religiosa, se chi le compie non vi porta quell’alimento divino, quell’ardore di Spirito Santo, che è la carità.
Nessuno si commuove o è riconoscente al rubinetto che ci dà l’acqua o al lampione che ci dà la luce, – notava già Ozanam. «Non di solo pane vive l’uomo», il quale è anima, oltre che stomaco. […]
«Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere; perché, così facendo, adunerai carboni di fuoco sopra la sua testa» (Rm 12, 20).
In una società cristianamente ordinata, non si concepisce che un cittadino, un fratello, manchi di quel minimo necessario per nutrirsi. A meno che non si tratti di circostanze eccezionali o che la cosa debba imputarsi a pigrizia e ad ozio (e ozio è ingiustizia sociale, e, dice san Paolo: «Chi non lavora non mangi»), a meno che, dunque, non si tratti di casi anormali, quando uno manca di pane segno è, – direbbero i Padri della Chiesa, – che qualcuno ne l’ha derubato. Se uno non ha una razione, vuol dire che un altro ne ha due. […]
Le opere di misericordia si giustificano dalla realtà della natura umana; e compiono il miracolo di mettere a circolare l’amore facendo circolare il pane: il miracolo che fa del dono di un pane una sorta di sacramento sociale, con cui si comunica, con l’amore, Dio, e si nutre, col corpo, l’anima.
(Igino Giordani, Il fratello, Figlie della Chiesa, Roma 1954, pp. 46-50)