La follia delle armi
Siamo nel gennaio del 1977 e Giordani scrive per la rivista Città Nuova un editoriale che, letto oggi, ci appare tragicamente attuale.
All’assemblea generale dell’ONU, il 17 novembre scorso, una donna, Molly Boucher, membro della delegazione della Santa Sede, parlò della pace e del disarmo […].
La pace – asserì la Boucher – «è il desiderio universale dell’umanità», e il disarmo è il suo «presupposto». Si levano contro di essa «gli ottusi, egoistici nazionalismi», e le ideologie e paure che provocano la futilità, il pericolo, l’ingiustizia e la immoralità della corsa agli armamenti…».
«Dal momento che già esistono sulla terra abbastanza armi per distruggere venticinque volte l’intero genere umano, appare chiaro che continuare a produrne, a sperimentarne, a inventarne è la peggior forma di follia».
Parole chiare, che spiegano la razionalità dell’opera svolta dai papi per scongiurare la corsa agli armamenti, come l’appello di Paolo VI lanciato, nel 1964, da Bombay alle nazioni perché dedicassero le spese ingenti delle armi a un «grande fondo mondiale per la soluzione dei gravi problemi della nutrizione, del vestiario, dell’abitazione e della cura delle malattie». Egli tornò con forza sul tema nel discorso alle Nazioni Unite del 4 ottobre 1965, e, dopo tre anni, nella enciclica “Populorum progressio”, oltre che in discorsi e opere senza pause. Il programma di pace svolto dal pontificato romano illumina quel processo di riconciliazione di cui l’umanità sente il bisogno urgente, nel Vietnam, nella Corea, nell’Irlanda del Nord, nel Libano, a nei rapporti spesso solo esternamente pacifici tra grandi stati. In essi, ad esempio, si fa sempre più frenetica la ricerca di maggiore potere nucleare, non tanto ai fini di uno sviluppo tecnologico, quanto come fonte di guadagni in nuove industrie a vendite di armi, specie presso i popoli affamati. Affamati per destinare il frutto del lavoro in acquisti di ordigni complicati di assassinio.
Il superbombardiere B-1, le flotte aeree, tutte le armi atomiche meno delle altre si giustificano razionalmente e cristianamente, come non si giustificano i siluri volanti, i bombardamenti a tappeto, i genocidi e le altre invenzioni del disumanesimo in corso. La rovina e la morte, che indiscriminatamente queste armi producono, costituiscono un volume di male – un maleficio – che nessun cavillo può giustificare. Non è consentito far male neanche per operare un bene: e un male poi che non ha alcuna proporzione col bene che si pretende realizzare.[…]
Avanti a tutti devono essere i cristiani a chiedere, e, con le loro forze imponenti, a imporre la pace, se si vuol far riuscire questa operazione vitale per la nostra civiltà: per la nostra stessa religione. Non vediamo un compito più urgente.
«Beati gli attuatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio». E se no, saranno figli dell’Omicida, per i quali la Redenzione per sangue sarebbe avvenuta invano. La guerra è la più evidente prova dell’esistenza di Satana.
Oggi che di guerre giuste e giustificabili non se ne danno più – con la atomica e gli armamenti moderni tutte le guerre sono divenute inique – bisogna tornare al comandamento netto, alla logica divina: «Quinto: non ammazzare». […]
È tempo che si affronti il problema della guerra fuori degli schemi e dentro la realtà: la quale è che la guerra moderna è l’attentato più impudente alla fede in Dio, al Vangelo di Cristo: un attentato alla Redenzione; un assassinio dei popoli. Immane peccato collettivo, che tutti siamo tenuti a eliminare.
«La guerra – scrisse Saint-Exupéry – non è un’avventura. La guerra è una malattia come il tifo». E il tifo si combatte e debella, non esistendo medici così degradati che giustifichino l’infezione tifoidea.
Solo il sofisma – questa alcoolizzazione del ragionamento – può giustificare oggi la guerra-tifo, la guerra peccato, la guerra-inferno.
«Tutto il mondo – gemeva da Cartagine il vescovo san Cipriano nel terzo secolo, – tutto il mondo è irrorato di sangue fraterno; e l’omicidio, se è consumato, da privati, è un delitto; se è compiuto dallo stato, è chiamato atto di valore; il che vuol dire che ad annettere un’impunità ai crimini, non vale la ragione dell’innocenza, ma la vastità della strage».
La coscienza cristiana sta annullando questa ipocrisia; intanto che insiste a coltivare in coscienza del rispetto totale della vita: e «noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli», ripete la Chiesa con l’apostolo Giovanni. Se no, – come diceva il presidente John Kennedy – «o l’umanità mette fine alla guerra o la guerra mette fine all’umanità»; e il pianeta si fa un cimitero.
Dove si antepone la pace alla guerra, e si realizza un graduale disarmo, segno è che la Chiesa è ascoltata e lo stato è a servizio del popolo. Ché il popolo vuole la pace. Tutte le persone, non travolte dall’avarizia, dalla frenesia, dalla paura, vogliono la pace, condizione essenziale per vivere.
Mi si consenta una modesta rievocazione personale… Discutendosi alla Camera dei deputati la mozione Giavi sul disarmo, la sera del 21 dicembre 1950, presi la parola anche io, illustrando l’atteggiamento della Chiesa di fronte all’«inutile strage» della guerra. Nel resoconto ufficiale della Camera, al discorso è aggiunta la postilla: «vivissimi, generali applausi», L’intera Camera difatti applaudì. Conferma che tutti vogliono la pace, cioè la vita. La minoranza clandestina che vuole la guerra, per cupidigia di lucro e di potenza, è pazza sino a preferire al bene della vita l’omicidio, il suicidio, il deicidio; tre crimini in uno. Uccidendo un uomo si uccide Dio in effigie.
Igino Giordani, editoriale, Città Nuova, 10.1.1977